Scuola di Yokohama

L’interesse degli studiosi per la fotografia giapponese, arte sviluppatasi nel XIX secolo, trova spiegazione essenzialmente in due ragioni di carattere puramente tecnico. In primo luogo per le modalità di riproduzione da lastre di vetro delle fotografie dell’epoca Meiji (1868-1912), che ebbe larga diffusione in Europa negli stessi  anni, ovvero la tecnica della stampa all’albumina nella quale veniva utilizzato l’albume d’uovo come legante per l’emulsione, in seguito utilizzato per produrre speciali carte albuminate, ma soprattutto per l’impiego di colori anilinici allo scopo di rifinire le stampe fotografiche, un modus operandi, quest’ultimo, che caratterizzò la fotografia giapponese a partire dagli anni Sessanta del XIX secolo, fino agli albori del XX. Nacque così la Yokohama Shashin, ovvero la “fotografia in stile Yokohama”. Le fotografie colorate a mano con un pigmento giapponese particolarmente adatto per quell’utilizzo, venivano vendute ai turisti, in album contenenti circa 50 immagini. La fotografia giapponese dell’epoca Meiji raggiunse una sintesi perfetta tra il mezzo fotografico, il linguaggio artistico-visivo, proprio della fotografia e la testimonianza documentaria della società giapponese che non ha eguali, sia per la qualità dei risultati artistici sia per la qualità della documentazione culturale e sociologica. Nonostante l’arte fotografica approdasse in Giappone solamente un decennio più tardi dalla sua invenzione, ciò che distinse stilisticamente la versione nipponica da quella italiana, e più in generale europea, fu essenzialmente la capacità di utilizzare un linguaggio visivo che racchiudeva in una sintesi iconografica perfetta, la storia, le tradizioni e la cultura millenaria di un popolo ancora poco conosciuto dal mondo occidentale. Ciò si spiega con il fatto che l’introduzione della fotografia nel Paese del Sol levate fosse strettamente legata alla stampa xilografica Ukiyo-e, propria della tradizione giapponese. Non è un caso, infatti, che i soggetti proposti nelle fotografie turistiche, fossero perfette imitazioni delle stampe giapponesi. Durante la restaurazione Meiji, il nascente mercato della fotografia mise in crisi la produzione xilografica Ukiyo-e tanto che molti artisti si ritrovarono ben presto disoccupati. La fotografia offrì loro la possibilità di applicare il proprio talento.

Nel 1853 la flotta americana guidata dal commodoro Matthew Perry entrò nella baia di Tokyo, sancendo così l’apertura del Giappone all’Occidente. La spedizione americana costrinse il Paese a mettere a disposizione alcuni porti per gli scambi commerciali internazionali, determinando i primi limitati insediamenti da parte di occidentali. Fu certamente la presenza di stranieri, per lo più inglesi e italiani, ad avere un ruolo decisivo nell’introduzione dell’arte fotografica nel Paese del Sol levante. L’autore delle prime riprese fotografiche del Giappone, effettuate con la tecnica del dagherrotipo, fu l’americano Eliphalet Brown Junior (1816-1886), fotografo ufficiale del commodoro Perry durante la spedizione nell’Estremo Oriente tra il 1853-54. Per la maggior parte si trattava di vedute di Okinawa, Shimoda e Yokohama, ritratti di persone appartenenti a diversi ceti sociali, pubblicate come xilografie annesse all’opera di Francis L. Hawks Narrative of the Expedition of an American Squadron to the China Seas and Japan del 1856. Il fotografo giapponese Shiro Ichiki eseguì nel 1857 un ritratto al dagherrotipo del Daimyo[1] Shimazu. É il più antico dagherrotipo di un fotografo giapponese a noi pervenuto. Sarà però con l’introduzione della fotografia al collodio umido, che sostituì il dagherrotipo, e la fine dello shogunato di Tokugawa Yoshinobu (1837-1913), che la fotografia diverrà per il Giappone una vera e propria realtà commerciale. Nel 1868 con l’insediamento dell’imperatore Meiji, il Giappone abbandonerà del tutto la struttura feudale per assurgere al rango di potenza militare e industriale. L’introduzione della fotografia nel Paese, durante il periodo Meiji, fu quindi saldamente connessa al processo di costruzione e di industrializzazione di una moderna nazione Giapponese. Il nuovo governo attenuò le restrizioni all’ingresso di stranieri nel paese e la fotografia acquisì notevole importanza nel campo turistico, quale mezzo per la produzione di souvenir, nacque quindi un florido mercato di fotografie turistiche. I viaggiatori però erano affascinati non tanto dalla profonda trasformazione politica, sociale e culturale che il Paese stava attraversando, quanto dalle tradizioni che molto velocemente stavano scomparendo. Per molti turisti questo Paese apparve come un rifugio da una società moderna e industrializzata. Volevano fotografie che confermassero l’immagine esotica che essi avevano del Giappone, in antitesi alla cultura del mondo occidentale. Le immagini che raccoglievano, avevano lo scopo di documentare i cosiddetti meisho, ovvero i “luoghi celebri”, come templi buddhisti, santuari scintoisti, panorami naturali (il Monte Fuji, le cascate di Nunobiki, i meravigliosi viali circondati da alberi di ciliegio in fiore), ma anche ritratti di geishe e samurai. Tra i fotografi attivi in Giappone durante l’era Meiji ricordiamo: Felice Beato (Venezia, 1832-Firenze, 1909), Raimund Von Stillfried (1839-1911), Adolfo Farsari (1841-1898), Kusakabe Kimbei (1841-1934), Tamamura Kozaburo (1856-[1923?]), Ogawa Kasumaza (1860-1929).

É generalmente riconosciuto che Felice Beato abbia reso popolare nella fotografia giapponese, la pratica di colorare a mano le fotografie, utilizzata dopo di lui da molti altri fotografi del periodo Meiji (1868-1912). Introdotta in Europa nel 1840, la colorazione a mano delle fotografie conobbe in Giappone la sua massima espressione e raffinatezza estetica, diventando una caratteristica distintiva della fotografia turistica giapponese. All’interno dell’atelier, gli artisti-pittori avevano il compito esclusivo di colorare le fotografie. Inizialmente vennero utilizzati pigmenti solubili in acqua che risultavano più trasparenti sull’immagine, al contrario delle pitture ad olio utilizzati in Occidente. Il tavolo da lavoro era basso e di legno, era fornito di pennelli (fude), pietre per sciogliere l’inchiostro e ciotole di porcellana, gli strumenti di lavoro erano in gran parte quelli della tradizione pittorica e calligrafica. Gli artisti preparavano i colori, aggiungendo una piccola quantità di colla di pelle di daino chiamata nikawa, e li applicavano sulla fotografia con la massima delicatezza e precisione. Tra il 1880 e il 1890 cominciarono ad essere utilizzati dei colori sintetici all’anilina. Per la colorazione di una buona fotografia occorreva quasi mezza giornata. I tempi erano così lunghi che vennero assunti sempre più artisti in un solo atelier, istituendo così una catena di montaggio che aveva una gerarchia produttiva ben precisa e che seguiva anche le inclinazioni e il grado di abilità di ciascun colorista. V’erano artisti responsabili dei colori, quelli il cui compito era dipingere i volti, l’abbigliamento e così via. Quando veniva richiesta la colorazione di più stampe dallo stesso negativo, l’artista doveva cercare di garantire una coerenza cromatica tra le copie, dettando le linee guida per le successive fotografie che rappresentavano lo stesso soggetto. Molto spesso però capita di osservare copie della stessa immagine, colorate da differenti artisti appartenenti a diversi atelier, che presentano sostanziali variazioni di colore e tecnica suggerendo che probabilmente gli era concessa qualche libertà artistica. In ultimo bisogna ricordare che, analogamente a quanto era successo con le matrici delle stampe xilografiche, le lastre negative furono oggetto di scambio e commercio da parte dei vari fotografi, non solo quando l’attività di un atelier cessava e un altro fotografo poteva acquisirne l’archivio, ma anche e soprattutto per esigenze di mercato[2]. Per questo motivo ancora oggi, nonostante le numerose ricerche da parte di studiosi, resta un compito difficile l’attribuzione di una fotografia ad uno specifico autore.

Riferimenti bibliografici

Bennett T.,  Fotografia del Giappone, 1853-1912, Tokyo, Rutland, Tuttle Publishing, 2006;

Clark J., Japanese Exchanges in Art, 1850s to 1930s with Britain, Continental Europe, and the USA: Papers and Research Materials, Sydney, Power Publications, 2001;

Hannavy J., Encyclopedia of nineteenth-century photography, New York, Routledge, Taylor & Francis Group, 2007;

Lacoste A., Felice Beato: A Photographer on the Eastern Road, Los Angeles, J. Paul Getty Museum, 2010;

Worswick C., Japan Photographs 1854-1905, New York, Penwick Publishing, 1979



[1] Il daymō era la carica feudale più importante tra il XII e il XIX secolo in Giappone. Dopo la Restaurazione Meiji nel 1869 i daymō, si unirono alla nobiltà (kuge公家) per formare un unico gruppo aristocratico: il kazoku (華族), il termine daymō si traduce letteralmente dal giapponese con il termine “grande nome”大名.

[2] Il commercio delle fotografie garantiva profitti altissimi; una fotografia veniva venduta a due dollari, mentre il costo di un album completo (50-60 fotografie) oscillava tra i cento e i duecento dollari. Di certo in quel periodo possedere un album fotografico era un lusso, considerando che il salario medio di un operaio giapponese era di circa venti dollari.


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